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Attraverso l’attività verso la pace
Carlo Michelstaedter, vita e morte di un persuaso

“L’eco dello sparo si spegne fra i sassi, Carlo si è sparato con la pistola che lui gli ha lasciato. Il sipario è calato e non c’è più niente da dire -- per Enrico, non per Carlo, sul quale quel gesto momentaneo non può nulla, come l’emorragia cerebrale non può nulla su Ibsen, nè la polmonite su Tolstoj o la cicuta su Socrate. Carlo è la coscienza sensibile del secolo e la morte non ha potere sulla coniugazione del verbo essere, solo sull’avere”. Così Claudio Magris nel suo romanzo “Un altro mare” dice della morte di Carlo Michelstaedter.
Michelstaedter è uomo dal talento versatile e multiforme, uomo dalle sette solitudini, dai cento interessi e dalle mille curiosità, che lascia la propria geniale ed originale impronta in tutto ciò che fa, distinguendosi per intelligenza e serietà, nonché per levità, sua inconfondibile cifra stilistica.
Mostrandoci l’abisso dell’insufficienza e la razionalità del dolore, la Verità dietro il dolore e la morte come salute, Michelstaedter tramonta: per amore, per troppo amore della vita tramonta. Ma il suo tramonto è l’alba di un nuovo giorno segnato dalla conquista del presente e dal possesso di se stessi: persuaso è colui che ha in sé la vita, qui ed ora. Persuaso è colui che è fedele al presente ed ha il coraggio di scrutare sino in fondo il doloroso splendore della realtà e le oscure, terribili profondità della propria coscienza. Nulla di inedito nella critica della società borghese e della falsa coscienza dell’uomo nella botte di ferro, nulla di inedito nella critica della Rettorica organizzata a sistema, eppure nelle sue mani tutto questo sembra nuovo, tutto questo vibra di sdegno e di rabbia, grida l’indignazione dell’intelligenza e dell’umanità offese. Egli ci prende per mano e ci conduce alle soglie della Verità persuasa e, nel momento, nel punto in cui si crede di poter capire, ci lascia a noi stessi: non un’interruzione, un abbandono, ma un prolungamento lasciato al lettore. Un ponte lasciato all’uomo, a colui che ha in sé la forza e la volontà di andare oltre: oltre la Rettorica, alla Persuasione. Al lettore, all’uomo, la chiave dell’interpretazione, interpretazione che è pluralità di interpretazioni, a vari livelli, sino al più alto, sino alla conoscenza assoluta. Così Michelstaedter supera il limite costitutivo della parola: dice e la molteplicità di sensi del suo segno danno valore al detto, aumentando la dinamica della conoscenza, che pur non mutando resta infinitamente disponibile alla verità dell’approccio interpretativo; non dice ed il non detto diviene fuoco, faro indicatore, nel buio, nell’ignoto, della via alla Persuasione. La filosofia, l’arte di Michelstaedter non rassicura, non illude, non promette. Si rivolge a coloro che vogliono conoscere il proprio cuore, a coloro che vogliono sentir pesare il proprio cuore in sé. Nella sua opera tutto è orchestrato potentemente, senza esitazioni: v’è luce, v’è oscurità, mai nebbia. Frase dopo frase, parola dopo parola, segno dopo segno ( in ogni segno, in ogni parola, in ogni frase ) c’è tensione, eccesso, mai pacificazione spirituale, appagamento. V’è la ricerca impressionistica del particolare che porta ad una potenza espressionista che tende, sforza, deforma e forma la realtà al fine di conquistarla e dominarla, fissando il singolo momento, il singolo istante, cosicché i simboli nati dalla memoria del presente diventano valore dei valori. L’esperienza dell’immediato, l’evidenza dei fenomeni diventano precisi segnali sulla via alla/della Persuasione.
Non v’è nei suoi dipinti, nei suoi scritti adorazione per l’ineffabile; non v’è la ricerca di un nuovo regno metafisico, religioso; non v’è affermazione violenta dell’ “io”, ma una sua analisi raffinata, precisa in ogni pur minimo particolare, sino a giungere alle soglie di un baratro ( l’inconciliabilità di noumeno e fenomeno, di essere e divenire ) ove l’unica scelta possibile è quella dell’auto-annientamento. Colui che è persuaso, da una parte spinge il proprio genio sino alle soglie della pura conoscenza, con la quale cerca di affrancarsi dalla Rettorica, dall’altra è costretto a comunicare la propria eccezionale esperienza con segni, suoni, colori, parole che della Rettorica sono diretta emanazione. Di qui l’impossibilità di trascendere l’orizzonte immenso (chiuso?) della Rettorica, ma anche la possibilità di imprimere alla propria opera quel carattere di “originarietà“ con cui mettere in crisi ogni rapporto codificato e sistematico con il mondo, a favore di una visione prospettica e di una interpretazione infinita. Perché l’opera, la creazione filosofico-artistica, non è solo il segno, il Senso di un rifiuto anarchico della ipocrisia sociale, non è solo un’alternativa ai valori corrotti della Rettorica organizzata a sistema, ma è sopra tutto un serio, un forte richiamo alla meditazione consapevole sulla vita: affinché l’uomo trovi, nel cerchio senza inizio e senza fine dell’esistenza, il punto della salute in cui consistere. Affinché l’uomo possa uscire dal labirinto senza uscita delle relazioni e della dipendenza. Vivendo tutte le contraddizioni, vivendo tutto il “negativo“ della vita: attraverso l’attività verso la pace...
“Nelle cose, con le cose, per le cose; nella vita e non fuori della vita; bisogna esser nella vita per uscirne -- e l’unica via è l’universalizzazione della vita, lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi: libertà e amore : quanto più l’uomo è libero tanto più sente sé identico all’universo: nell’amore verso l’intima ragione accomuna sé e l’universo; sente sé ( nel proprio divenire verso l’essenza ) la ragione dell’universo, ama sé in tutte le cose e tutte le cose in sé; in quanto ama e cerca quell’unica universale essenza. L’eroe vive in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita: il regno dei cieli è in te“.
Grazie alla Persuasione le idee possono “crescere”, grazie alla Persuasione le idee crescono nell’humus della teoria, della prassi e della forma. Michelstaedter ha sentito e visto. E capito. E avendo capito, agisce. Ma l’azione non coincide con il pensiero: l’impossibilità di mettere in pratica la filosofia della Persuasione influenza e contribuisce a modificare il suo orizzonte teoretico, aprendogli la strada verso un mondo in cui la conoscenza confina inevitabilmente con la follia. Preso in una spirale sempre più ampia, egli perde il controllo di sé: il sentimento travolge il suo “io” oramai universalizzato; la visione non si risolve in rappresentazione; l’azione non coincide con il pensiero. Tutto crolla. Il centro non tiene. La colonna, fatta di molte colonne (la contraddizione, fatta di molte contraddizioni), non regge. Ma l’impossibilità di stabilire e mantenere un ordine assoluto, un equilibrio definitivo, non induce Michelstaedter ad adattarsi, ad accettare l’ordine prestabilito e l’equilibrio limitato della Rettorica organizzata a sistema: avendo portato la bocca al frutto proibito, Michelstaedter non può vivere serenamente, non può più contentarsi di oziare nel ritmo di bisogni ed appagamenti; per vivere deve trovare una ragione di vivere, qualcosa che giustifichi la vita, che dia giustificazione. E ragione di vita non può essere il filosofare, ché il travagliato viaggio del pensiero nei pensieri ci persuade che tutto è vano (fuor che il nostro pensiero?); e ragione di vita neppure può essere il sentire ed il poetare, ché la poesia nasce dalla disperazione e dal dolore di non poter agire con piena, assoluta Persuasione, nasce dal cercare e non trovare. La contraddizione speculativa ed esistenziale michelstaedteriana, nata dalla volontà teorica e pratica di conciliare vita e pensiero, contraddizione risolta nella teoria ma non nella pratica, è madre di una diversa, più grande contraddizione: il suicidio, la “bella morte”, conseguenza di un concatenarsi di fattori interni ed esterni, psicodinamici e ambientali, diviene la causa stessa di codesti fattori. Michelstaedter, seguendo il richiamo della Persuasione, cerca l’assoluto, l’impossibile, l’impossibile rivolta, cerca di vivere l’esistenza autentica: egli deve, egli può, egli vuole, egli vive e muore con/nella Persuasione. Vive e la sua vita è il segno, muore e la sua morte è il Senso. Sconfitto, ma non vinto, dalla Rettorica, dalla Rettorica segnato, il teorico della Persuasione sceglie la morte ... “pietosa lei sola al mondo dei terreni affanni e piega addormentato il volto nel suo virgineo seno”. Scelta tragica. Il suicidio è atto liberatorio, salvifico e, al contempo, disperato, sintomo di malattia; affermazione e, insieme, negazione dell’io; rinuncia alla lotta ed exemplum per l’umanità, scintilla da cui deve nascere il fuoco purificatore, il fuoco della Persuasione. L’estremo gesto, pur meditato ed attuato in nome di un principio superiore, è da una parte atto eroico nato dalla volontà di redimere il mondo, dall’altra è atto critico contro sé stesso, contro il proprio mancato equilibrio interiore (la sua costituzione psicofisica è sensibile, estremamente sensibile, il suo “nervosismo” molto al di là della norma), contro il conflitto irrisolto con la famiglia, con la società, con il mondo. Così, se da una parte, il suicidio è il prezzo che egli paga per l’assenza di valori e per l’inutilità del vivere, per la mancanza di persuasive alternative storiche, scontando la sua stessa formazione culturale borghese, dall’altra è scelta libera, coraggiosa e consapevolmente eroica: egli sa di esser sceso e di aver scavato sino al fondo della crisi del suo tempo e di aver portato innanzi al “tu devi !“ della Rettorica il rifiuto e la negazione, senza sorta alcuna di consolazione e compromesso. Egli sa di essere un breve ma intenso lampo sulla via della Persuasione. La Rettorica organizzata a sistema, col suicidio dell’eversore, afferma, ri-afferma il proprio carattere universale ed assoluto. Colui che per sé sceglie la morte, scelta del tutto particolare e limitata, vuol consistere nella Persuasione, vuole combattere contro la Rettorica, contro la negazione della vita, contro la svalutazione dell’esistenza. Così vuole e così vive, così muore: combattendo. Il suicidio è l’atto supremo attraverso il quale Michelstaedter si libera dai vincoli, dalle catene delle relazioni e dal ceppo della dipendenza, conquistandosi il “qui ed ora“, il possesso presente della propria vita, e rinunciando alla “cura del futuro“. Realizzando, l’altrimenti irrealizzabile, “attività che non chiede“, che tutto dà e nulla chiede, attività che ha in sé, e non fuori di sé, il proprio motivo, il proprio fine: l’agire etico lascia il posto all’azione tragica. Il viaggio problematico nel mondo corrotto dalla Rettorica organizzata a sistema, si rivela come solitaria danza nel labirinto, nei tortuosi cunicoli della sua stessa anima: al di là di ogni rimedio epistemologico, egli supera l’aspetto inquietante, terribile dell’esistenza, il dolore che inspiegabilmente, imprevedibilmente si avventa sull’uomo, accettandolo come unico modo possibile di essere autenticamente vivo, di vivere autenticamente ed autenticamente morire, di essere autenticamente libero. La libertà è la possibilità per l’uomo di agire moralmente, di conoscere, al di fuori dei confini determinati della scienza e della coscienza moderne, l’assoluta Persuasione, superando il rispetto ed il timore di regole e leggi, ma è anche (e sopra tutto) la possibilità di scegliere come vivere e dove, quando morire. E il Goriziano può così far sue le parole di Nietzsche: “Molti muoiono troppo tardi, e alcuni muoiono troppo presto. Suona ancora strano l’insegnamento: muori al momento giusto! La mia morte vi lodo, la libera morte che viene a me perché io voglio”.
Niente da aspettare
Niente da temere
Niente chiedere - e tutto dare
Non andare
Ma permanere.
Non c’è premio – non c’ è posa.
La vita è tutta una dura cosa.
C.M.

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Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perchè non chiedano: questa è l’attività che toglie la violenza dalle radici.
-- “ Questo è l’impossibile “. Già: l’impossibile! Poichè il possibile è ciò che è dato, il possibile sono i bisogni, le necessità del continuare, quello che è della limitata potenza volta al continuare, quello che è della paura della morte, -- quello che è la morte nella vita, la nebbia indifferente delle cose che sono e non sono: il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente divien vita.
C.M.
Il sito di Carlo
Δι' ἐνεργείας ἐς ἀργίαν
Ho conosciuto Carlo, per Caso, a Macerata, nel Novanta, per Fortuna. Mi mostrò i suoi disegni l'amica di un amico, iscrittta - ahimè! - alla scuola di pittura: "impressionista?"
Utile domanda, se si vuol far dell'eccezione una tesina. Di li a poco scovai in facoltà alcune sue poesie, nell'edizione curata dall'amico Vladimiro... le lessi, le rilessi, le lessi ancora.
Cercai a lungo il suo Dialogo e la sua tesi - su rettorica e persuasione - difficili da trovare chè al tempo nella rete cadevan solo sgombri, sogliole e roscioli. Alla Società del Giardinetto, in vicolo Monachesi, tra ubriaconi e garibaldini, pagina dopo pagina feci mie le sue parole, i suoi pensieri, il suo sentire: che altro poteva dire un uomo morto da bambino?
Nell’ Autoritratto del 1908, Carlo si dipinge vecchio, la testa senza il corpo, i capelli rasi, bianchi. Il volto emana una luce chiara che contrasta con lo sfondo scuro e con le scure, folte sopracciglia. Le grandi orecchie sembrano ali e la testa sospesa nell’aria: è il volto di un monaco in meditazione, ma gli occhi aperti, fissi, profondi e la bocca piccola, sensuale, carnosa dicono di un legame profondo con la Terra e con i terreni piaceri, con i terreni affanni.